“In punta di...penna”
Vite maschio e vite femmina.
La questione di genere nella meccanica.
Delia Di Canosa _ 5 Agosto, 2020
Sentire parlare della questione di genere dalla bocca (o dalla penna) di un’interprete di conferenza può sembrare un mero esercizio retorico, poiché nell’immaginario collettivo alla questione di genere si associano il movimento delle suffragette nei primi anni del Novecento, le femministe più radicali degli anni ’60, le provocazioni delle Femen e, perché no, Conchita Wurst, che dal palco dell’Eurovision Song Contest porta sotto i riflettori la Queer Theory postulata dalla filosofa statunitense Judith Butler e diventa testimone della pratica di (Un)doing Gender.
Insomma, ci si aspetterebbe di tutto ma non il mondo dell’interpretariato.
Eppure, prometto di dimostrare che la “questione di genere” si impadronisce di espressioni e modi di dire, di immagini e costrutti che diventano parte integrante del modo di interpretare il mondo e si ripropongono quotidianamente nelle interazioni tra soggetti.
Parola chiave: Interpret(ar)e.
Un (‘)interprete simultaneista che lavora con la combinazione linguistica italiano-tedesco-francese in ambito tecnico-ingegneristico si può trovare a operare in una realtà a prevalenza maschile, in cui la maggior parte dei colleghi è di sesso femminile: una bella gatta da pelare perché si è portati a (ri)cercare il giusto equilibrio tra l’aderenza al ruolo professionale che si riveste e le aspettative di genere provenienti dall’esterno.
Quindi femminile, ma non troppo. Socievole, ma non troppo. Seriosa, ma non troppo. Distaccata, ma non troppo.
Competente, ma…si, quello si, troppo.
Immaginiamo un’interprete (donna) durante un incarico che si svolga in un contesto tecnico-ingegneristico, ad esempio per un’azienda meccanica del paesino più piccolo e conservatore d’Italia: il patron non si aspetterà solo competenza e serietà, ma anche aderenza a quell’immagine atavica della femminilità apparentemente incompatibile con il mondo della tecnica.
Dato che in questo tipo di contesto interpretativo, l’interprete diventa co-protagonista dello svolgimento dell’interazione, cui partecipa con la sua fisicità, le sue espressioni, i suoi tratti caratteriali, la percezione di sé in quanto soggetto e la percezione dell’io in quanto prodotto sociale, l’appartenenza di genere si trasforma in un tratto discriminatorio laddove le caratteristiche e le competenze codificate nel ruolo di genere non combaciano con le regole vigenti in una comunità composta storicamente da uomini.
“Le parole son femmine e i fatti maschi”
La lingua italiana è intrisa di quella polarizzazione semantica che produce rappresentazioni stereotipiche socialmente attestate e riconosciute.
Avete mai riflettuto, avvitando un bullone, sul motivo per il quale in meccanica sia diffuso l’utilizzo convenzionale delle espressioni “femmina” e “maschio”, a designare ciascuna metà di una coppia di accoppiamento di connettori?
O vi è mai capitato di assistere basiti (come me) a battute del calibro di: “È ovvio che la macchina crei problemi - è femmina!” o ancora:” Donne e motori, gioie e dolori”?
Cultura o natura?
Recenti studi hanno evidenziato che non sono solo le forme di saluto e la prossemica a riproporre una precisa tipizzazione stereotipica di genere, ma anche l’intonazione e le frequenze della voce concorrerebbero a (ri)evocare uno schema comportamentale radicato nel modello sociale in cui siamo cresciuti.
Un interessante articolo pubblicato lo scorso 14 maggio sul settimanale tedesco Die Zeit ha evidenziato che nei paesi scandinavi, in cui le politiche di genere hanno contribuito ad assottigliare le disuguaglianze e a favorire l’emancipazione femminile, le donne abbiano un timbro più profondo e un’intensità maggiore.
Secondo il prof. Michael Fuchs dell’Università di Lipsia, la differenza tra la variabilità vocale delle voci maschili e quella delle voci femminili si sarebbe ridotta della metà negli ultimi 50 anni: basti seguire un dibattito parlamentare e confrontare le voci di Giorgia Meloni con quella del Ministro degli Esteri tedesco, Heiko Maas, per rendersi conto di quanto queste due voci siano vicine per intensità e timbro.
Al contrario, nelle produzioni televisive e cinematografiche, si assiste a una tendenza di segno contrario e al ritorno a voci femminili sensuali, assertive, acute e gracile e a voci maschili gravi, pastose, virili e corpose.
Nella costruzione binaria dell'universo, in cui al giorno segue la notte e il nero é complementare al bianco, il segreto sembra risiedere nel mito di Tiresia, indovino cieco della mitologia greca, il/la quale ben sette volte visse la trasformazione da uomo in donna. Egli veste e sveste il ruolo sociale ritagliato per lui/lei dal mondo esterno, adattandolo e modificandolo in base al contesto in cui agisce. Quale migliore esempio ante litteram di (Un)Doing gender?
Seguitemi nel mio prossimo articolo!
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